Come al solito sono in ritardo, dovevo scrivere questo articolo mesi fa.

Come al solito ho spaziato nell’argomento, vedrai come la pensano e come la penso.

Questa volta tutti i titoli sono delle domande ma non tutti i paragrafi sono delle risposte…

Complesso eh, ma, come si dice dalle mie parti: “Qanno ce vo, ce vo!”

COME SI CREA UNA CUCINA COSì?

La follia degli chef non a caso. Probabilmente nella mente degli chef c’è un po’ di follia, come per tutti i geni, gli artisti e i creativi.

Ma i grandi chef sono anche e soprattutto disciplinati, ricercatori, imprenditori e maestri.

Con “grandi chef” non intendo esclusivamente gli chef stellati che vanno in TV, che scrivono libri o che fanno del merchandising con le loro facce. I “grandi chef” di cui ti parlo sono persone comuni, che riescono a disciplinare il loro genio ed incanalare la loro creatività in cucina costruendosi, nelle generazioni, una loro identità.

I grandi chef mirano all’eccellenza con l’umiltà di riconoscere che di Top Performer (o come li chiamo io chef VIP) ce ne sono una manciata nel mondo ma sono altrettanto consapevoli che creare una cucina fatta di eccellenza ed efficienza, solida identità e di relazioni sane è il più grande successo.

PAROLA AGLI ESPERTI

È da pazzi pensare che una cucina così sia sostenibile al giorno d’oggi?

Il giorno d’oggi, dove le più grandi cucine del mondo si inginocchiano davanti alla sostenibilità, che piuttosto di essere un obiettivo o incentivo si sta dimostrando un ostacolo quasi insormontabile per gli chef.

Sostenibilità economica intendo, far quadrare i conti in parole semplici.

Far quadrare i conti con una brigata affiatata, competente e strutturata ai fornelli; con il personale di sala entusiasta e i clienti soddisfatti della qualità dell’offerta.

Il “cliente sazio e soddisfatto” è un importante focus e anche criticità ma di questo di parlerò più avanti.

Dicevamo. La sostenibilità nel fine dining è sostenibile? (scusa il gioco di parole)

Per rispondere a questa domanda ho chiesto l’aiuto degli esperti… Le prossime righe sono frutto della mia penna ma delle testimonianze degli chef Bruno Cingolani, titolare del ristorante Dulcis Vitis e Alessandro Boglione, titolare del ristorante Gastronomia Urbana.

Entrambi chef con un’esperienza stellare (in senso figurato e non). Sono allievi di grandi maestri che in decenni di duro lavoro sono stati abili a costruirsi una solida identità culinaria e creativa e che proprio grazie a quest’ultima sono riusciti a fare il grande passo da chef a chef imprenditore dando vita ai loro ristoranti nella città di Alba.

Chi meglio di loro può parlarci di sostenibilità?

Sostenibilità in che senso?

Essere sostenibili vuol dire proiettarsi verso il futuro, essere lungimiranti, soprattutto per le nuove generazioni.

Con Bruno e Alessandro abbiamo parlato a lungo dei problemi delle “nuove leve” e del “colpo d’occhio”. Ma andiamo con ordine, sono due tematiche molto interessanti da analizzare singolarmente. Quello di cui sono certa è che appena leggerai quello che so per scrivere penserai: “Caspita! È vero, me ne accorgo anche io quando vado a ristorante” o addirittura “Probabilmente sono uno di quelli che…”

Ti ho incuriosito eh!

Sapori o contenuti per instagram?

Bruno mi dice: “La ristorazione è in grande difficoltà, molti ristoratori new entry nell’industria credono che sia un business pronti e via, fonte di guadagno rapido. Le nuove leve di chef stanno partendo senza sapori dando molta più importanza all’impatto visivo dei piatti, il cosiddetto colpo d’occhio”.

Non stiamo qui per puntare il dito e capire di chi è la responsabilità di questo cambio progressivo (e distruttivo) nel segmento del fine dining, i luoghi comuni a cui mi affido da consumatrice, più o meno assidua, dei ristoranti è: “la verità sta nel mezzo” e “il cliente (NON) ha sempre ragione”.

A mio modesto parere, la verità è che le nuove leve di chef ambiscono a produrre il piatto con il miglior colpo d’occhio della storia, perché i consumatori medi vogliono esattamente quello.

“Stupire con la ricerca e la semplicità, la pasta al pomodoro è un grandissimo piatto, c’è più qualcuno che la sa fare come si deve? Quante volte si trova un buon sugo di pomodoro nel menù di un ristorante? Non c’è più l’ambizione di stupire con la semplicità. Però c’è l’ambizione dell’effetto wow.” Dice Alessandro, a tal proposito.

Il fatto è che tutti parlano di materie prime ma quando si va a mangiare in pochi hanno i “sapori in bocca”.

Per la maggior parte dei clienti spendenti, andare al ristorante è diventato una moda e quindi basta il colpo d’occhio, non serve più mangiare bene.

Immagina la scena, sei in un ristorante gourmet, location da paura, atmosfera top (lo descrivo così per entrare meglio nella parte) arriva il cameriere con un piatto in ceramica pazzesco e dentro una pietanza lucente, piena di colori, sfumature, dettagli…

Il cameriere inizia a spiegarti il piatto con grande professionalità, lui è il trait d’union tra la cucina e la sala.

Lo stesso cameriere che, probabilmente, per arrivare a quel livello, ha fatto anni di gavetta e altrettanti di esercizio.

Lo stesso piatto che per essere la meraviglia che è ha richiesto abbondante maestria ed esperienza da parte dello chef e di tutta la brigata, probabilmente non poche sveglie all’alba e probabilmente altrettante tribolazioni varie che mi piacerebbe saperti elencare nel dettaglio se avessi lavorato in una cucina.

Opzione 1 o Opzione 2?

Dicevamo, momento del servizio del piatto, tu che fai?

Opzione 1: ascolti il cameriere con genuina curiosità e, perché no, anche una buona dose di rispetto nei confronti della sua professionalità.

Opzione 2: Recuperi il tuo smartphone il più in fretta possibile e inizi a cercare l’inquadratura, la luce, la prospettiva e chi più ne ha più ne metta perfette perché poi quel piatto andrà sul tuo profilo Instagram e non puoi perdere l’occasione di farlo vedere a tutti!

Ma poi, ti importa veramente se quel piatto è buono? Se vale i soldi spesi? Se i tuoi sensi sono stati piacevolmente stupiti? Etc.

Posso dirti? Forse no. Perché la foto è venuta bene, quindi, come direbbe Alessandro Borghese “Voto Diesci”.

Ma il numero di like è un driver attendibile per valutare la validità di uno chef?

Purtroppo, vince quasi sempre l’opzione 2.

A questo punto, dico io, chi glielo fa fare alle nuove leve di chef di avvicendarsi senza sosta dietro i sapori se quello che paga e manda avanti la baracca sono i “colori”, che richiedono molta meno fatica?

Non voglio parlare bene e razzolare male eh, nel senso che anche io “consumo” i piatti con tutte le foto e i video che faccio, però solo dopo aver ascoltato di cosa si tratta e con tutta la volontà di intercettare i sapori, lasciarmi stupire e di formulare una mia idea sull’esperienza complessiva.

Quindi diciamo che sono una via di mezzo tra opzione 1 e opzione 2.

Una cucina così è lungimirante? È sostenibile? O si sta costruendo su fondamenta fittizie?

Per questo si parla di sapori, i sapori li deve avere chi cucina e chi mangia. Senza i sapori il business non è sostenibile.

Sapori o Curriculum?

L’ansia del CV è qualcosa che affligge un po’ tutti i giovani in uscita dall’università o dalle scuole professionali. Presumibilmente è qualcosa che ci portiamo avanti, chi più e chi meno, durante tutta la vita lavorativa.

Anche per i cuochi è così, andare a lavorare nelle grandi cucine stellate è il top per uno studente appena uscito dalla scuola ma…

Sviluppare i sapori e imparare a riprodurli è fondamentale per uno chef neonato; imparare la cucina di base è fondamentale e ciò non accade facilmente, da ultimo arrivato, in una folta brigata di un ristorante stellato.

Con cucina di base intendo un sugo al pomodoro, una pasta sfoglia, sfilettare il pesce… insomma i passaggi base della cucina italiana.

Chi è capace ad elaborare una sfoglia di pasta? Secondo Bruno Cingolani il 95% degli chef entranti non lo è. Molti non sanno rispondere se domandi loro:

“Cosa è un radicchio trevigiano? E uno di Gorizia? di Caselfranco? E uno veronese? Un radicchio Spadone?”

Sarebbe interessante fare un esperimento: andare un po’ in giro e fare questo tipo di domande agli aspiranti chef.

Ma d’altra parte che importa che varietà di radicchio è se nel piatto è bello? Domanda retorica.

Molte nuove leve si dimenticano della cultura culinaria italiana, quella delle grandi preparazioni, delle grandi cotture e della disciplina. La nuova parola d’ordine nelle cucine: rapidità.

Oggi via con gli spadellamenti! Ancora meglio se in una cucina a vista così il cliente può fare una IG story.

Parole di Bruno: “Ora si sono pure inventate le polveri, ma ritorniamo a fare un bel risotto allo spumante, al Barolo… Queste cose non le fa più nessuno. I risotti la ristorazione non li fa più, perché ci vuole troppo tempo e costa molto. Si stanno abbandonando le tradizioni. I nuovi chef probabilmente non sanno come si fa un risotto ben fatto. Non si parla più di zuppe e minestre, ormai c’è la pasta, il tagliolino…Le lavorazioni lunghe non ci sono più”

La cucina dei grandi come Marchesi, le grandi cotture, la preparazione delle salse, dove sono finite? Pensa che prima nei ristoranti si preparavano pure gli insaccati! (come La Signora di Conca Casale)

“Le grandi città sono state le promotrici di questi nuovi trend, “imbastardendo” (permettimi il termine) l’identità della tradizionale cultura culinaria del nostro paese. La differenza tra la generazione degli chef cinquantenni e quella delle nuove leve, appena uscite dalle scuole, è tutto ciò che è tecnologia e comunicazione. La tecnologia e la comunicazione sono un bene, un progresso, ma spesso fanno si che si trascuri la preparazione sulle fondamenta della cucina e non si abbiano le radici per poter sviluppare un proprio concetto di cucina e un’identità per lasciare un’impronta” dice Alessandro.

Tecnologia e creatività si cannibalizzano? Secondo me, inizialmente no. La tecnologia può aiutare la creatività, se alla base vi è conoscenza e consapevolezza. Diventa pericoloso quando la tecnologia non è interpretata come progresso (appunto) o come supporto bensì come escamotage: ciò che ti rende la vita più semplice e ti esime dalla necessità di imparare e approfondire. A questo punto la creatività finisce, perché la creatività è alimentata dalla conoscenza. E cosa è uno chef senza creatività?

Lo chef è imprenditore?

Deve esserlo. Davanti ad una frittatina di cipolle bianche leggermente appassite, e grissini con salsa tonnata ciapulata, che in piemontese vuol dire tritata a mano, e maionese fatta in casa Alessandro mi ha introdotto perfettamente il suo pensiero, talmente esaustivo che te lo riporto paro paro.

“Le dinamiche sono cambiate. La mia prima esperienza lavorativa nell’87 è stata con Piero Sattanino, campione mondiale di Sommelier nel 1971. Allora non c’era internet, non c’era niente, per questo vincere un premio ambito in quegli anni voleva dire solo due cose: passione e competenza. Si partiva con delle esperienze e la tua carriera e il tuo successo erano dettate da ciò che avevi appreso e avevi visto. Dopo circa una quindicina d’anni c’è stata la prima rivoluzione, per cui non bastava più cosa avevi appreso ma dovevi essere al passo con quello che il mercato richiedeva: “lo stupire a tutti i costi”. Tecniche estremizzate, utilissime e geniali, solo se utilizzate con criterio

E continua: “Adesso siamo entrati in una fase ancora diversa dove il successo e la capacità di portare avanti un locale non dipende più dall’esperienza, dalla bravura o dalla conoscenza di tecniche da parte dello chef ma si deve necessariamente essere un imprenditore. Ho visto non pochi colleghi chef ristoratori, veramente molto bravi e capaci, che non ce l’hanno fatta, perché mancavano di spirito imprenditoriale. Non bisogna più aggiornarsi solo sulle tecniche, sulle ricette, adesso bisogna aggiornarsi e conoscere tutto ciò che è marketing. Il marketing è ciò che ti da “la possibilità di…”. Chi è più bravo a comunicare e a “far credere di…” ha successo, ma non vuol dire che sia bravo nel mestiere, non c’è più meritocrazia in questo senso”.

Questione “personale” o “di personale”?

So già che farò fatica ad esprimere questo concetto, io che non sono quasi mai bianco o nero bensì grigio.

Diciamo che la comune credenza che, ad oggi, aleggia sul mondo della ristorazione è che gli chef imprenditori non trattino con la dovuta considerazione e sottopaghino il personale.

È vero? Probabilmente si, probabilmente no… Come spesso accade la risposta è: dipende.

Si potrebbe anche pensare che in alcuni casi, al personale, non si chieda altro che una normale disciplina, legittima da pretendere in un ambiente come le cucine di un ristorante, e che loro non siano volenterosi a dimostrarla.

Quindi sto dicendo che: in molti casi le nuove leve di chef non dimostrano interesse a riconoscere e valorizzare i sapori e a padroneggiare una cucina di base e non sono consoni a dimostrare la tradizionale disciplina in cucina.

E sto dicendo anche che: le nuove attitudini degli chef entranti, come l’innamoramento facile per le cucine stellate, l’ambizione al bello (più che al buono e al ben fatto) e “poca spesa massima resa”, sono inevitabilmente e indiscutibilmente alimentate dalle caratteristiche del cliente medio dei ristoranti per i quali Instagram docet.

Sarebbe bello (forse al limite dell’utopia) che i giovani avessero piacere ad imparare dagli chef che fanno qualità e con decenni di esperienza, non solo perché hanno la stella ma per avvicinarsi alla vera cucina italiana senza spaventarsi del lavoro pesante. Investire sul personale è un valore aggiunto ma il personale di non sembra essere interessato alle relazioni di continuità, è finita l’epoca dei collaboratori ventennali. Oggi è tutto più easy: come sono entrato esco.

Sostenibilità culturale: voglia di apprendere la professionalità, la professione e di tramandarle. È possibile? È giusto ricercarla?

Il cliente – NON – ha sempre ragione

Il cliente dando più importanza ai social, all’immagine, al nome, etc. Innesca questo meccanismo per il quale la tecnica, i sapori e la disciplina cadono inevitabilmente in secondo piano lasciando posto alla forma fittizia di un bel piatto.

Oggi lo chef deve fare l’imprenditore e il sostentamento economico è difficile, un piatto di qualità costa molto!

Ti faccio un esempio, quante volte ci capita di ordinare la battuta di fassona e ritrovarci la carne cruda tritata. Ma ciò che mi chiedo io è: “Il cliente lo capisce?”

La maggior parte no, c’è poca curiosità e voglia di informarsi. Quindi si continua su questa linea.

“Fare qualità, essere riconosciuti dai clienti e distinguersi dagli altri, pur non presentandosi con la stella è difficile. Perché il cliente fatica a comprendere ciò per cui ti distingui” dice Bruno.

Ristorante gourmet o ristorante alla moda?

Nostalgia canaglia.

Nel fine dining il maitre serviva al tavolo, arrivava con la pentola direttamente dalla cucina, le trattorie mettevano al centro del tavolo i vassoi, ora arriva il piatto.

Il servizio al piatto è più meticoloso, quasi il limite della maniacalità, con tutta l’importanza che si sta dando all’immagine. Ma il fascino del tegame di rame e della terracotta non può e non deve tramontare. Ora in pochi sanno cosa sia un servizio al Gueridon, ad esempio.

Anche la grande distribuzione per la ristorazione stellata non sa più quali ingredienti innovativi proporre e quando parte una moda li vogliono tutti e c’è una forte tendenza a copiarsi.

Quindi che succede? Tutti piatti diversi ma tutti equivalenti, vince chi lo presenta meglio.

E poi? I trend dei piatti scomposti non posso non citarli, sui dessert principalmente.

“Perché scomporre un dessert? Per scena, per immagine. Ma se si parte dalla farina, dalla manualità, dagli ingredienti si crea un dessert eccellente che dovrebbe fare parlare di sé a prescindere dalla sua forma alternativa” dice Bruno.

Tanto lavoro porta sicuramente tanti costi ma non sarebbe un problema se ci fosse una risposta adeguata dal mercato.

Un tempo la sostenibilità era questa: servire le cose prodotte in casa. Ora si parla di km0, ma nella ristorazione vince ancora l’apparenza.

“Stupire con la semplicità è la chiave del successo, la parola d’ordine per il futuro. C’è troppa confusione. Ci sono 20 big nel mondo, ma è giusto emularli? È giusto ambire a diventare come loro? Loro sono cavalli di razza e sono loro punto.

Si può “scimmiottare” uno dei grandi chef ma non si è mai come lui. Però va di moda, piace arrivare a ristorante e trovare un piatto bello, “instagrammabile” e che riprenda l’idea di un piatto da grande chef. Ma i sapori? L’identità?” dice Alessandro.

Ora nelle cucine vanno i jeans e le bandane e ciò si discosta non poco dalla tradizionale eleganza degli chef di una volta. Ma in fondo chi può dire se è meglio o peggio?

Sono concetti e preconcetti a cui si riduce un mestiere (non un lavoro) che è soprattutto manodopera. La teoria e i trend non fanno la cucina, tantomeno la cucina numero uno al mondo!

Voce di bilancio Cantina

Pensa a quante volte hai sentito o detto: “Siamo andati a mangiare in quel ristorante… mamma mia! Carissimo!”. Senza pensare a tutte le bottiglie che avete bevuto e che, probabilmente, almeno la metà del conto erano spese per il vino e non per il cibo

Il vino e la cucina devono alimentarsi a vicenda tuttavia, al contempo, devono essere interpretate come due cose separate.

A ristorante, per il vino si spende più volentieri (e più facilmente) di quello che si spende per il cibo per questo la cantina di un ristorante è una voce di sostenibilità importantissima.

Lo chef titolare di un ristorante deve quotidianamente accrescere il valore della sua cantina. Non per altro la figura del sommelier sta superando, per visibilità e importanza, anche la figura dello stesso chef.

Andare in un ristorante gourmet e non trovare un sommelier che accompagni la tua esperienza o non trovare il vino di tuo gradimento è quasi più frustrante che non apprezzare il piatto, e ho detto tutto!

“La cucina deve diventare la tua famiglia, un luogo dove si creano legami veri e sintonie che durano per tutta la vita. La cucina deve essere una passione che ti realizza anche nelle tue necessità di tempo libero, se ami il tuo lavoro quasi non avrai bisogno di avere altri hobby. Solo una cucina così è sostenibile” conclude Alessandro.

Non c’è problema nella gestione del personale, il problema è trovare del personale gestibile. Non c’è problema a soddisfare il palato del consumatore, il problema è trovare chi comprende il valore di ciò che consuma ed è disposto a pagarlo il giusto prezzo.

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